Da un mesetto rumino questa cosa… che mi sembra di importanza capitale nella Chiesa di oggi e nella percezione che gli altri ne hanno… un mesetto perché nasce da una piccola parte della sublime catechesi - che non si capisce perché venga definita lectio divina - che papa Benedetto XVI ha tenuto il giorno 11 giugno scorso nella Basilica di San Giovanni in Laterano. Il brano in questione è questo:
Il cristianesimo non è una cosa puramente spirituale, una cosa solamente soggettiva, del sentimento, della volontà, di idee, ma è una realtà cosmica. Dio è il Creatore di tutta la materia, la materia entra nel cristianesimo, e solo in questo grande contesto di materia e spirito insieme siamo cristiani. Molto importante è, quindi, che la materia faccia parte della nostra fede, il corpo faccia parte della nostra fede; la fede non è puramente spirituale, ma Dio ci inserisce così in tutta la realtà del cosmo e trasforma il cosmo, lo tira a sé.
Con la consueta chiarezza e semplicità il Papa - che non esiterei a definire come un nuovo "Padre della Chiesa" - affronta un tema tutt'altro che scontato nell'attuale modo di pensare e vivere la fede. Penso a tutta la "sete di spiritualità" che si coglie in giro. Alla domanda di "spiritualità". Alle proposte di "spiritualità".
Penso a cose ambigue come certe comunità nuove, come certi discorsi eterei e vacui. Cose così "spirituali" da appiattirsi inesorabilmente soltanto sul soddisfacimento delle esigenze dell'umano senza di fatto offrire nulla del tesoro - tutto ecclesiale e "carnale" - della grazia. La salvezza diventa un paradiso fuori dalla storia. Oppure, ed è la deriva m sembra più pericolosa, una storia che si autorealizza per sé nella costruzione di una pace interiore tutta psicologica. Entrambi le derive non toccano l'umano. Lo preservano così com'è, simul iustus et peccator (dove peccatore si declina con fragilità, ferite, debolezza, povertà; una terminologia che tende a far commuovere e intenerire). Ma non c'è contatto tra vita e grazia. Lo Spirito è così importante che non si mischia con la carne, perde ogni pretesa di salvarla. La salvezza consiste nell'accettare la propria fragilità; nel trasformare le ferite in feritoie, nell'assumere la debolezza, nell'abbracciare la povertà. Ma non è Dio che si fa povero per farci ricchi con la sua povertà. Dio, semmai, è uno che preferisce abbandonare il suo trono nel cielo e vivere sulla terra. E qui restare. Una "spiritualità" che rinuncia a salvare, vuole solo rassicurare.
Ora, siccome anch'io - e il progetto di un monachesimo missionario per cui spendo la mia vita - spesso sono iscritto, mio malgrado, in questa categoria, mi sento stretto in questa "spiritualità". E vorrei dire: io non c'entro.
Proprio per le cose che dice il Papa.
Se la fede è intesa come fatto unicamente spirituale… ebbene no! Non iscrivetemi alla categoria "spirituale"! La fede, la vita cristiana, è storia. È carne animata dallo Spirito Santo. Una carne sottratta alla dannazione del peccato e chiamata alla santità ecclesiale. Lo spirituale è tale non perché si rivolge allo pneuma dell'uomo, ma perché esprime l'azione santificante dello Spirito di Dio. È un equilibrio così "divino" quello della spiritualità che non si può concepire se non abbandonandosi alla fede ecclesiale. Non per nulla mi pare che la cifra che accomuni ogni "spiritualismo" sia il rifiuto preconcetto e dogmatico dell'istituzione ecclesiale.
A partire, per restare in un tema caro al nostro Papa, dalla dimenticanza o dall'avversione verso le norme liturgiche in nome di una libertà "dello spirito", appunto. Mai come in questi tempi mi sembra decisivo questa fedeltà alla liturgia come è donata dalla Chiesa, come il canale per poter davvero vivere la partecipazione a "quest'opera così grande, con la quale viene resa a Dio una gloria perfetta e gli uomini vengono santificati" (SC 7: tanto in opere, quo Deus perfecte glorificatur et homines sanctificantur)
Capisco da qui tanta diffidenza di preti, di gente di Chiesa. Quando ci si presenta come "monaci" subito si sente la "puzza" di questa deriva spiritualista che così tanto ostacola oggi la fede e la autentica spiritualità. Ecco… mi pare importante precisare che quando parlo di monachesimo, di vita monastica non intendo qualcosa di "nuovo", di "spirituale", di rispondente alle esigenze dell'uomo. Intendo riferirmi ad una tradizione ininterrotta di uomini e donne che hanno trovato in questa forma di vita un modo concreto e "pratico" di vita nello Spirito Santo. Una vita che spinge l'uomo ad elevarsi, a non essere più peccator, ma a diventare iustus. Una vita che aspira alla misura alta cui la fede ecclesiale chiede. Una vita che se prende le distanze dall'istituzione ecclesiale non lo fa per disprezzo o per giudizio o per costituirsi come ecclesiola, ma unicamente perché è proprio della vita dei monaci stare nel cuore della Chiesa nascondendosi in essa.
Il fraintendimento è facile. Ma allora la chiarezza - e definirsi - diventa una necessità essenziale. È forse per questo che così raramente parlo di "spiritualità". E mi pare strano sentire appiccicato addosso a me questa etichetta.
A scanso di equivoci, esser monaci secondo la nostra "regola di vita" è essere autenticamente spirituali: peccatori che mossi dallo Spirito Santo si avviano alla ricerca di Dio percorrendo la via dell'umiltà fino a camminare nella via dei suoi comandi con un cuore dilatato dall'amore. Qualcuno riconoscerà un debito dovuto alla Regula Monasteriorum di san Benedetto. E in effetti null'altro si vorrebbe vivere che quello che sempre i monaci nella Chiesa hanno vissuto. "Perché, allora, una "nuova" comunità?" mi chiederete. Vi risponderei con un ask God! Io, sinceramente, lo so meno di voi che leggete: chiedetelo a Lui…